di Valeria M.O. Totta, Psicologa-Psicoterapeuta, Specialista in Psicologia della Salute
In una fase storica in cui l’attenzione della popolazione mondiale è rivolta allo sviluppo dell’epidemia da Covid19, la morte di George Floyd, avvenuta a Minneapolis per presunto omicidio ad opera di un agente di polizia, ha saputo deviare l’interesse di tutti sospendendo il monopolio della pandemia sui mezzi di informazione.
George Floyd era un afroamericano, termine che non esplicita affatto le origini dell’uomo nato in Texas ma che tenta di definire il colore scuro della sua pelle nei limiti del politically correct. La sua morte ha assunto, per chi si è indignato alla sua conoscenza, le connotazioni dell’abuso di potere, del razzismo, del fascismo. Sui giornali, in televisione e online si legge di volta in volta che Floyd fosse un pregiudicato, un tossicomane, affetto da Covid19, oppure un buon padre e un uomo pacifico. Le rivolte che ne sono conseguite hanno infiammato, anche di violenza, un clima già molto teso.
D’altra parte, per quanto orribile, la morte di un uomo ad opera di un agente pubblico non è una novità, così come non lo è il razzismo né il fascismo. Episodi simili sono stati spesso relegati nelle ultime pagine dei giornali o non fanno alcuna notizia. Allora perché, in tempi di pandemia, la morte di Floyd è stata in grado di catturare l’attenzione e muovere gli animi alla rabbia e alla reazione anche violenta? Perché, in questo caso e non negli altri, le autorità hanno preso le distanze dagli agenti di polizia, condannandoli apertamente? Non pretendo di rispondere a domande così complesse, ma vorrei evidenziare e stimolare una riflessione su un elemento che differenzia in maniera netta questo episodio da altri simili: Floyd è morto, e continua a morire, sotto gli occhi di chiunque.
Certo, le indagini sono ancora in corso e la mia affermazione non intende perseguire una realtà oggettiva. Tuttavia, nell’ipotesi ben accreditata e soprattutto vissuta e sentita da molti, Floyd è morto a causa di quell’atto osceno di violenza che tutti possono spiare, in ogni momento, da qualunque schermo che si riproduce a varie grandezze nelle case e nei luoghi pubblici.
L’aggettivo “osceno” deriva il proprio etimo dal latino obscenus che significa letteralmente “di cattivo augurio”. Il suo significato è riconducibile a qualcosa che offende gravemente il senso del pudore, come gli atti sessuali espliciti, che di fatto sono censurati dalla stampa e dal web. Eppure, l’atto di violenza estrema ai danni di Floyd non è stato censurato, nemmeno alla vista dei bambini, anzi viene ripetutamente proposto.
Sono numerosi gli studi che dimostrano che la violenza viene appresa per imitazione, a partire dal famoso esperimento di Albert Bandura con il pupazzo Bobo (1961): nello studio, alcuni bambini guardavano uno sperimentatore intento a malmenare una bambola e, a seguito di ciò, agivano atti di violenza verso oggetti o persone in maniera superiore rispetto ai bambini che non avevano assistito alle scene di aggressività esplicita. La questione però non si limita a questo, sebbene suggerisca che i bambini e gli adolescenti che osservano atti di violenza si mostreranno più inclini ad azioni violente.
Mi domando quali emozioni si provino e quali siano le scelte di comportamento se ci si trova, in strada, ad assistere ad un atto di violenza verso uno sconosciuto. Rispetto alle emozioni immagino la paura, l’impotenza, la rabbia, e il disgusto, emozioni che chiunque abbia scelto di guardare i video della violenza su Floyd avrà avuto modo di sperimentare personalmente. Circa i comportamenti, penso alla possibilità di tirare dritto con lo sguardo sulla strada qualora predominino i sentimenti di paura e impotenza, all’intervento diretto nel tentativo di bloccare la violenza se ad essere più forte fosse la rabbia, al raccontare l’episodio ad un amico in preda al disgusto. Di fatto, in risposta alla pubblicazione dei video molti non hanno fatto nulla, altri sono scesi in piazza e altri ancora hanno scritto frasi disgustate sui social.
Oltre all’analogia plausibile tra osservare un atto di violenza per strada e guardare un video di violenza esplicita e reale, quindi non un atto di finzione, ritengo necessaria un’altra considerazione. Ovvero che filmare la scena di un poliziotto che soffoca un uomo ma anche guardarne il video pubblicato online sono comportamenti attivi, e pertanto differenti dal trovarsi per caso ad assistere ad una scena di violenza. Si sceglie di filmare, di vendere e di pubblicare e si sceglie di guardare qualcosa che è del tutto simile alla scena di un film dell’orrore, se non per il fatto di riprodurre la morte vera di un essere umano al quale nessuno ha avuto modo di chiedere il permesso. Mi chiedo se una motivazione a questi comportamenti possa essere l’idea implicita di percorrere una via di mezzo tra il guardare dall'altra parte e intervenire in prima persona, né troppo codarda né troppo rischiosa. Queste scelte, come tutte, avranno delle conseguenze. Quali?
A fronte di questi pensieri provo un forte senso di pudore e mi chiedo quale diritto ho di guardare George Floyd mentre muore e se davvero l’impatto sociale anche utile (penso alle manifestazioni pacifiche o al riconoscimento del movimento sociale Black Lives Matter) possa compensare l’ostentazione di un atto disumano.
E la sensazione viscerale che mi suscita è quella di un nodo alla gola.
#Icantbreathe
Riferimenti bibliografici e sitografia
Bandura, A., Ross, D. & Ross, S.A. (1961). Transmission of aggression through imitation of aggressive models. Journal of Abnormal and Social Psychology, 63
https://www.internazionale.it/notizie/alessio-marchionna/2020/05/27/morte-george-floyd-razzismo